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Futurboba

Luca Borchio, in arte Futurboba, è un autore che trasforma la materia in poesia. Le sue opere nascono dall’incontro fra gesto, tempo e superficie: disegni minuti e intensi, che si adagiano su legni già vissuti, portatori di cicatrici, venature e memorie. Queste superfici non vengono cancellate ma accolte, diventando parte integrante dell’opera. Su di esse Futurboba fa affiorare corpi stilizzati, anime leggere, abbracci e attese, gesti sospesi fra gioco e preghiera. È un linguaggio fatto di segni essenziali, di vuoti che parlano, di dolcezze ostinate che resistono al tempo.

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Nelle sue figure si ritrovano le fragilità quotidiane e i piccoli miracoli dell’esistenza: fragili, imperfetti, ma sacri. L’artista lavora per sottrazione, con pochi elementi — una linea, un pensiero, un cuore inciso — ma ogni segno possiede una densità emotiva straordinaria. A volte scrive, altre tace, ma in entrambi i casi riesce a toccare corde profonde, là dove dolore e tenerezza si confondono, dove anche le rotture diventano carezze e il custodire diventa un atto rivoluzionario.

Futurboba non è solo un disegnatore: è un narratore visivo che attraversa la materia come fosse un diario. La sua ricerca parte dalla fotografia, campo in cui si è inizialmente distinto per le sperimentazioni con tecniche di alterazione dell’immagine. Già nella prima personale, La realtà non mi basta, l’artista utilizzava la varichina per modificare le fotografie, segnando l’inizio di una costante indagine sulla materia e sul tempo.

Decisivo, nel suo percorso, l’incontro con Gabriele Devecchi, cofondatore del Gruppo T e figura di spicco dell’arte cinetica e programmata. Da quel momento Futurboba amplia i propri strumenti e sperimenta l’uso dell’alcool per alterare i colori dei marker, o il sottovuoto per fissare e preservare i lavori. Queste ricerche gli consentono di attraversare i confini tra grafica, pittura e poesia, dando vita a un linguaggio personale dove i titoli stessi diventano parte della narrazione.

Dalle superfici di legno alle carte, dai segni rapidissimi agli interventi pittorici più meditati, ogni opera nasce da un’urgenza espressiva immediata ma capace di toccare in profondità. Il suo mondo è popolato da figure essenziali, intime e universali insieme, che ci ricordano quanto l’arte possa essere al tempo stesso ferita e carezza, memoria e desiderio. Nel cuore del legno, ultima mostra dell’artista, conferma questa direzione poetica e materica, in cui l’umanità si fa segno e respiro.

Capitan Morgan

Capitan Morgan, nome d’arte di un artista che ha scelto il legno come suo mezzo espressivo, lavora con passione e precisione nell’intarsio di diverse tipologie di legno.

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I suoi soggetti preferiti sono animali, in particolare i bassotti, e personaggi famosi, icone pop, rappresentati attraverso un sapiente gioco di colori e sfumature ottenute dai legni di frutta e nelle opere più recenti anche dai colori acrilici. Ogni tavola realizzata è unica, con dettagli che si distinguono grazie alla tecnica meticolosa dell’intarsio, ed è un’esperienza visiva che comunica delicatezza, emozione e un legame profondo con la natura e le sue forme più pure.

Stefano Urzi

Al centro dell’arte di Stefano Urzi è il mare.

Sulla riva, con la brezza salina che gli accarezza il viso, guarda il suo amato mare, la sua natura mutevole e imprevedibile, immenso spettacolo che si estende all’infinito e che non pone limiti ai sogni e alla libertà. C’è qualcosa di costante ed eterno nel mare: la sua capacità di incantare la vista e di ammaliare i sensi.

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E sulle tele è il mare stesso che ci parla, per mezzo del suo grande interprete. Come in un’istantanea, ecco lo sfavillio dei bagliori tra le onde, la morbida spuma bianca, la luce nitida sulle acque calme, il blu dei cieli, il rumore frusciante della risacca, o sordo e cupo del vento, le onde appena increspate, gli spruzzi, l’odore di salmastro, la brezza leggera che carezza la faccia, la raffica violenta che la sferza, lasciandola umida di sale, il riverbero che acceca di luce, gli scogli appuntiti sotto i nostri passi…

Le sue tele sembrano vivere, capaci di trasportare chi le osserva in un luogo lontano, in una storia senza tempo, in cui possiamo viaggiare per ore e perderci nelle sue profondità. È un viaggio fisico e spirituale che ci porta a ritrovare noi stessi e le nostre emozioni, in una meraviglia continua che rappresenta una fonte inesauribile di ispirazione e riflessione. Possiamo sentire la potenza della natura, la sua forza e la sua bellezza, e ascoltare la voce del vento, il silenzio.

Giuseppe Trentacoste

Giuseppe Trentacoste

Giuseppe Trentacoste (Firenze, 1977) sviluppa una personale ricerca sulla materia e sulla memoria degli oggetti, concentrandosi da oltre vent’anni su una tecnica che definisce “tela piegata”. La sua opera nasce dal gesto semplice ma profondamente simbolico del piegare sacchi di juta, in precedenza utilizzati per contenere caffè, tabacco o cacao. Materiali di scarto, impregnati di storia e di viaggi, diventano così protagonisti di un linguaggio che unisce arte povera, rilievo scultoreo e pittura.

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«La mia tecnica – spiega l’artista – è basata sull’utilizzo di sacchi di juta che, in precedenza, contenevano caffè, tabacco o cacao. Piegando questi sacchi, che recupero presso torrefazioni locali o grazie ad amici che tornano da viaggi all’estero, creo bassorilievi. Attraverso la manualità e le diverse piegature, che non seguono una precisa logica, faccio in modo che i timbri di provenienza rimangano in vista, cosicché il fruitore della mia opera possa conoscere il vissuto e il percorso del sacco. Infatti, esso stesso è, per me, veicolo e opera d’arte, strumento e risultato: il sacco ha una sua memoria e una sua storia, così come tutti gli oggetti».

Il processo è complesso e in continua evoluzione dal 2005. I sacchi vengono piegati più volte, intelaiati, trattati con resine, colle e colori acrilici per raggiungere una compattezza e una rigidità pari a quella della plastica, pur restando internamente vuoti e leggeri. La juta, materiale povero e ruvido, rinasce in nuove forme: da semplice contenitore diventa superficie viva, trama pulsante di una narrazione visiva che conserva i segni del proprio passato.

L’uso del sacco di juta e dell’imbottitura conferisce all’opera una tridimensionalità grezza, fatta di materiali umili che contrastano con la forza visiva e concettuale del soggetto. In molti lavori di Trentacoste, la materia diventa teatro di un immaginario ironico e surreale: figure, simboli e personaggi del mondo pop e infantile emergono dal rilievo come apparizioni giocose, capaci di trasformare l’oggetto in un racconto corale.

Attraverso la “tela piegata”, Trentacoste trasforma la memoria del materiale in linguaggio poetico. Ogni piega è un respiro, ogni trama un percorso. Nella sua ricerca si intrecciano sostenibilità, recupero e libertà espressiva: il sacco conserva la sua voce originaria ma parla un linguaggio nuovo, quello dell’arte che sa vedere oltre la superficie delle cose.

Ernesto Portas

Ernesto Portas è nato nel 1938 a Barcellona, in Spagna.

Dopo gli studi artistici in Spagna, sull’esempio del padre pittore, completa la sua formazione in Francia e quindi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, seguendo I corsi di Primo Conti e Domenico Purificato. Nel 1967 si trasferisce a Livorno, dove ha proseguito una feconda e fortunata carriera artistica.

E’ mancato a Livorno nel maggio 2021

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Due nature intime di Ernesto Portas

Due opere intense e sorprendenti di Ernesto Portas, realizzate alla fine degli anni Settanta, ci riportano in una cucina di ieri, semplice e reale, carica di odori e gesti familiari.

La prima raffigura una bistecca, poggiata su quella carta da macellaio ruvida e giallastra, che oggi in pochi ricordano ma che allora era ovunque: sulle carni appena tagliate, sulle tavole di trattorie sincere, usata anche come tovaglia o come blocco da schizzi. Una materia povera, impregnata di quotidianità, diventata superficie d’arte.

L’altra tela propone un soggetto altrettanto umile ma poetico: un barattolo di latta, forse un contenitore di vernice, nel quale Portas ha sistemato due zucchini con il fiore, come si fa con i fiori veri. Un gesto d’affetto, uno sguardo curioso sulle cose semplici che lo circondavano.

Entrambe le opere sono realizzate con pennellate larghe e decise, che modellano forme, luci e ombre solo attraverso il colore. Nessun disegno preparatorio, nessun contorno: solo emozione, volume, presenza. La pittura di Portas non è rappresentazione, ma vibrazione di sguardo, impatto emotivo diretto.

Modernissime nella loro essenzialità, queste due nature morte sembrano schizzi pittorici eseguiti d’istinto, ma racchiudono uno studio profondo, una capacità rara di cogliere il senso delle cose minime. Sono ricordi di un tempo vicino eppure già lontano, filtrati dalla sensibilità calda e appassionata di un artista che ha sempre guardato al vero con rispetto e libertà.

Ernesto Portas, nato a Barcellona nel 1938 e scomparso a Livorno nel 2021, è stato artista autentico e coerente, formatosi tra la Spagna, la Francia e l’Italia, allievo tra gli altri di Primo Conti e Domenico Purificato. Queste due opere ne raccontano con semplicità tutta la forza pittorica e la verità interiore.

Maria Teresa Majoli, luglio 2025

Roberto Becherucci

La pittura di Becherucci nasce sempre dal vero, da quella pratica en plein air che in tempi odierni è ormai rara, ma che restituisce una forza e una freschezza impossibili da ricreare in studio. La sua è un’esperienza diretta con il paesaggio, vissuta tra vento, luce e salsedine, che diventa linguaggio pittorico immediato, vibrante e autentico.

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Artista profondamente legato al territorio, Roberto Becherucci vive e lavora a Livorno. La sua pittura si inserisce nella tradizione labronica, rinnovandola con uno stile personale e contemporaneo. Formatosi accanto ad alcuni maestri della scuola livornese, ha saputo sviluppare una voce autonoma, capace di raccontare il paesaggio urbano e marino con una tavolozza ricca e sorprendente, che alterna delicate armonie a esplosioni di luce.

Ogni suo quadro è un atto d’amore verso la terra toscana e livornese: autentico, energico e appassionato. Nel tramonto allo Scoglio della Regina si ritrovano insieme la memoria storica, il dialogo con la tradizione pittorica e l’inconfondibile segno dell’artista, che restituisce al nostro sguardo non solo un luogo, ma un’emozione viva, vibrante, che ci appartiene.

Maria Teresa Majoli, agosto 2025

Paolo Thrull

Autodidatta di grande abilità tecnica, Paolo Thrull trasforma la tradizione pittorica in un’esperienza visiva fresca e contemporanea. I suoi soggetti classici, reinterpretati con colori brillanti e una sensibilità moderna, offrono al pubblico opere che uniscono l’eleganza del passato alla vitalità del presente.

La sua pittura si distingue per l’attenzione ai particolari, evocando l’iperrealismo senza aderirvi strettamente, e per la capacità di mantenere una calda dimensione emotiva che la rende unica. Lontano sia dall’approccio fotografico sia dai tratti rapidi della tradizione macchiaiola, l’artista esplora il figurativo contemporaneo con uno stile che è insieme rassicurante e innovativo.

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Rosy Mantovani

Rosy Mantovani: tra solitudine e resilienza

Le opere di Rosy Mantovani raccontano un’umanità sospesa, fragile ma capace di resistere. Giovani donne e adolescenti emergono dai paesaggi urbani delle periferie, luoghi crudi e distopici che diventano metafora di una società impoverita nei valori e incapace di guardare al futuro con fiducia. Queste figure sono presenze-assenze: icone silenziose di un tempo in cui la comunicazione è globale ma l’umanità sembra smarrita, rinchiusa nel proprio “io” e incapace di trasformarsi in un “noi”.

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L’infanzia perde l’aura simbolica tradizionale e diventa specchio di una società anestetizzata, ma proprio attraverso la candida presenza dei giovani protagonisti, Mantovani suggerisce possibilità di rinascita. Come fiori cresciuti tra le crepe dell’asfalto, queste figure incarnano la forza della resilienza: occhi assorti nei pensieri ma pronti a non arrendersi, sguardi rivolti al domani nonostante la desolazione circostante.

Nata a Vigevano nel 1968, Mantovani ha iniziato come grafica pubblicitaria diplomata all’Accademia d’Arti Applicate di Milano, perfezionandosi in una prestigiosa agenzia milanese. La sua formazione artistica prosegue con la Fondazione Roncalli di Vigevano sotto la guida dei pittori Oronzo Mastro e Davide Avogadro, esperienze che le hanno permesso di sviluppare una cifra stilistica personale, capace di coniugare precisione tecnica e profondità emotiva.

La pittura di Mantovani si muove tra malinconia e speranza, narrando il paradosso della globalizzazione: un mondo unito nelle distanze fisiche ma frammentato nei legami umani. Le periferie diventano scenari di contrasto, dove il caos del mondo esterno e il silenzio interiore dei soggetti coesistono. Il mito del progresso e la religione del lusso e del divertimento lasciano spazio a una solitudine malinconica, eppure la forza interiore dei protagonisti emerge come luce che attraversa le ombre urbane.

Ogni opera è un invito a osservare la vita con occhi attenti, a riconoscere le crepe ma anche i germogli di speranza. Nei dipinti di Mantovani, vulnerabilità e resistenza convivono: la solitudine diventa occasione di riflessione, la quiete interiore si fa gesto di resistenza, la fragilità diventa poesia visiva. La sua arte ci ricorda che, nonostante il mal di vivere, la bellezza dei piccoli gesti e degli sguardi consapevoli può dare senso al nostro tempo.

Maria Teresa Majoli, settembre 2025

Raimondo Colantonio

Raimondo Colantonio

Il lungo cammino bianco – Il mare dentro

La pittura di Raimondo Colantonio unisce memoria, esperienza personale e profondità poetica. Nel ciclo Il lungo cammino bianco, l’artista rende omaggio agli uomini che affrontarono l’inverno russo del 1943. Figure evanescenti si sostengono a vicenda nella desolata distesa ghiacciata: ombre che si confondono tra cielo e terra, perdute nel bagliore della foschia. Con una pittura scarna e sintetica, ma dai magistrali toni, Colantonio restituisce la forza silenziosa della speranza e del coraggio umano.

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Accanto a questo nucleo, il progetto Il mare dentro raccoglie decenni di lavoro dedicati al mare, tema che accompagna l’artista fin dall’infanzia. Nato a Torre del Greco, Colantonio ha conosciuto il mare da bambino, seguendo il padre a bordo delle navi e imparando a leggere le correnti e i venti. L’esperienza si è approfondita durante il servizio militare in Marina, che lo ha portato a vivere il Mediterraneo nei suoi aspetti più drammatici e intensi. Da questa relazione profonda nasce un corpus di opere in cui il mare è insieme ricordo, passione e destino.

Nei dipinti “da riva” l’artista racconta i colori e le variazioni della luce: l’alba che rischiara la superficie calma, il temporale che incombe e increspa le onde, il tramonto che avvolge tutto in toni caldi e rassicuranti. Nei dipinti “da dentro”, invece, Colantonio ci conduce tra spruzzi e foschie, nel cuore vivo dell’acqua. Qui la pittura diventa esperienza fisica, immersione totale: si percepisce il respiro delle onde, la potenza dell’abbraccio marino, il mistero che affiora da un orizzonte in continuo movimento.

Ogni tela diventa così una finestra aperta sul legame indissolubile tra uomo e mare, tra memoria e visione. Con passione e rigore, Colantonio ci invita a guardare oltre la superficie, a riconoscere nella natura un riflesso profondo delle nostre emozioni e del nostro destino.

Maria Teresa Majoli, agosto 2023

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