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Marco Cavalieri

Marco Cavalieri vive e lavora a Roma. Espone in varie città italiane e le sue opere sono presenti in collezioni private a Milano, Firenze, Palermo, Forlì, Napoli e Roma.

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La sua arte spazia tra espressionismo e simbolismo, tra il fantastico e l’onirico. Una continua ricerca nella quale l’uomo è al centro di un progetto di indagine interiore. Ultimamente lavora abbinando all’acciaio vari materiali come alluminio, plastiche, legno ed elementi meccanici, creando opere polimateriche.

IBRIDA è il tema di quest’ultimo progetto, ancora in trasformazione, in divenire, in cui l’uomo ricerca una sinergia e una correlazione positiva con la tecnologia delle macchine, dei robot. Opere materiche queste in mostra, dove forte è il desiderio di compenetrazione, alla ricerca di un seppur difficile equilibrio che poi è alla base di questo nostro essere contemporaneo.

L’interconnessione tra uomo, animale e macchina è il tema di questo mio progetto, in cui presento diverse sculture polimateriche le quali hanno come comune denominatore la fusione tra l’essere vivente e l’automa, da cui il nome IBRIDA.

Le sculture realizzate in acciaio inox, alluminio, plastiche e parti meccaniche in ferro, rappresentano la sintesi di un possibile domani ove l’uomo sempre più sarà chiamato a confrontarsi con il proprio progresso e la propria creatività e con i pericoli e i danni che potrebbero scaturire da menti immature e irresponsabili.

Personalmente non ho preconcetti nè chiusure morali sull’utilizzo della biotecnologia, ad esempio nel settore della medicina, microchip sotto pelle o protesi tecnologiche, dopotutto la ricerca ormai da anni si è indirizzata in questa direzione e ben venga se può aiutare a risolvere malattie rare o sostituire organi vitali danneggiati.

Non è quindi la tecnologia che fà paura, ma l’uso che ne può fare l’uomo. Siamo sempre noi a controllare le macchine e non viceversa.

Dovremo quindi cercare sempre un compromesso e il giusto equilibrio tra le due parti per un armonico vivere e coesistere.”

La pittura di Marco Cavalieri alla Melograno Art Gallery di Livorno

Le opere di Marco Cavalieri ci conducono in un viaggio onirico e affascinante attraverso i labirinti della mente e dell’immaginazione. In questa serie, che comprende titoli evocativi come L’urlo, Nessun luogo è lontano, Piccola paranoia della sera, Tante cose nella mente, Voler volare e Una mattina di dicembre, i protagonisti sono volti e figure circondati da un’esplosione di immagini e simboli.

Ogni dipinto presenta un caos solo apparente: oggetti, ricordi e frammenti di sogno fluttuano in armonia, contornati da colori pastello come l’azzurro, il rosa e il verde. I profili sezionati, spesso autoritratti dell’artista, diventano finestre aperte sul surreale, da cui fuoriescono fiori, utensili, personaggi e situazioni inaspettate. Ogni elemento sembra intrecciarsi in una narrazione sognante e sottile, come se il linguaggio del sogno trovasse una forma visiva.

Cavalieri riesce a rendere tangibile l’indefinito, creando una dimensione dove il reale si fonde con il fantastico. I suoi dipinti non inquietano, ma avvolgono lo spettatore in una dimensione placida e delicata, dove anche il groviglio dell’inconscio appare gentile. Ogni opera è un invito a esplorare i confini tra ciò che conosciamo e ciò che sogniamo, ricordandoci che, in fondo, nessun luogo è lontano.

Maria Teresa Majoli, novembre 2024

Andrea Renda

Andrea Renda lavora utilizzando supporti di polistirolo schermato da una superficie traslucida attraverso la quale appaiono superfici tormentate, scavate, graffiate e incise, dense di colore che si esalta e si moltiplica con la rifrangenza della luce.

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Il filo conduttore è un dialogo continuo, talora una sintonia, talora una contrapposizione tra spirito e materia, tra gesto e segno. Un tentativo di comprensione e rappresentazione della realtà attraverso  un’azione più o meno intenzionale, la cui traccia è una ricomposizione, mediata dal mezzo espressivo esso stesso protagonista, di forze istintive inconsapevolmente guidate.

Digging… Uno scavare fisico nella materia per lavorarla nel colore. Scavare come metafora di ricerca, esterna ed interna a sé, come mezzo di indagine e come manifestazione nel dipanarsi delle possibili soluzioni. Scavare per trovare un tesoro perduto, un paradiso nascosto di antica saggezza. Scavare e rivelare ulcere e piaghe, ferite segrete ed impossibili da sanare finché non si trovi la forza di portarle a nudo. Ora è il colore puro a dominare sgorgando tra i solchi rugosi. Ora scaglie di vetro e metallo luccicano come diamanti o come sale purificatore su una ferita aperta. Scavare per comprendere cosa siamo,  per superare paura o indifferenza, per cercare, come in una miniera, il filone lucente ed il respiro della vita.

Maria Teresa Majoli

Claudio Giulianelli

Claudio Giulianelli è un artista che crea mondi visivi ispirati alle fiabe, popolati da personaggi magici e figure immaginarie che sembrano uscire dai racconti di un tempo antico, ma con un respiro contemporaneo. La sua pittura esplora la fantasia e l’onirico, trasformando ogni tela in una porta verso universi surreali, dove dame misteriose, giullari e creature fantastiche dialogano tra loro e con lo spettatore.

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La sua cifra stilistica è un equilibrio tra delicatezza e ironia, tra comico e tragico, che traspare nei gesti, negli oggetti e negli sguardi dei personaggi. I colori, vibranti e attentamente calibrati, diventano strumenti per costruire atmosfere magiche, evocative e immersivi. Le opere di Giulianelli invitano a un viaggio personale e intimo, stimolando l’immaginazione e l’emozione, e creando una narrativa visiva in cui fantasia e realtà si fondono armoniosamente.

Matteo Fieno

Matteo Fieno è un artista che ha costruito la propria ricerca attorno alla figura femminile, indagata non come cliché estetico ma come presenza viva, complessa, forte. Le sue donne non sono icone leziose: sono corpi reali, attraversati da forza e fragilità, testimoni di un’energia che nasce dentro e si manifesta fuori.

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La sua pittura mescola tecniche diverse e porta sulla superficie tutte le tracce del processo creativo. È l’artista stesso a definire il proprio lavoro come una “materia visiva morbida, quasi fluida”, resa tale dalla contaminazione continua tra acqua, pigmenti e segni grafici. Gocce di colore indefinito, macchie, ditate e sbavature diventano parte integrante dell’immagine, non errori da correggere ma frammenti di verità.

In questi corpi imperfetti Fieno trova un racconto universale: la dignità dell’essere umano che conserva ogni errore come valore costitutivo. Le sue donne sono storie, stati d’animo, stati di resistenza. Attraverso la pittura, l’artista apre un dialogo diretto e senza mediazioni, dove la potenza del segno e la sincerità della materia diventano strumenti per mostrare la forza delle persone reali.

Michela Masini

Michela Masini, artista toscana, coltiva fin da bambina l’amore per l’arte, il colore e i materiali. La sua formazione prende forma al Liceo Artistico, dove studia sotto la guida di maestri come Massimo Micheli, sviluppando una sensibilità attenta e un linguaggio pittorico personale.

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Esperta di antiquariato, negli ultimi anni ha scelto di dedicarsi con maggiore intensità alla pittura, avviando un percorso espositivo che mette in luce la varietà della sua ricerca.

La sua produzione si muove tra due poli espressivi complementari. Da un lato, una natura magica e complice, costruita attraverso rapide e sintetiche pennellate che vibrano di luce e atmosfere fantastiche. Dall’altro, un universo ironico e talvolta pungente, dove sarcasmo, gioco e ribellione danno vita a opere dal sapore piccante e malizioso.
Queste due anime, apparentemente distanti, dialogano e si completano, accompagnando lo spettatore in un viaggio ricco di suggestioni, riflessioni e inattese verità.

Angelo Froglia

Angelo Froglia (Livorno, 1955 – Roma, 1997) è una figura complessa, vibrante e profondamente amata dai livornesi.

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Pittore, scultore, performer e spirito inquieto, ha attraversato la scena artistica italiana con un’intensità rara, sempre in bilico tra slanci creativi e fragilità personali. Dopo il diploma al liceo artistico si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Firenze e, giovanissimo, apre il suo primo atelier, iniziando a costruire un linguaggio pittorico immediato, gestuale, anticonformista. Nel 1974 partecipa alla Quadriennale di Roma, segnando una prima importante presenza sulla scena nazionale.

La sua vita, segnata anche da scelte radicali e momenti drammatici, non è mai disgiunta dall’arte: ogni esperienza, anche la più dura, diventa materia creativa. Uscito dal carcere nel 1981, rientra a Livorno e riprende a dipingere con una forza rinnovata. È qui che, nel 1984, compie il gesto destinato a renderlo celebre in tutto il mondo: le celebri “teste” ritrovate nei fossi della città e attribuite ad Amedeo Modigliani. Froglia non le considera una semplice burla, ma un’azione estetica e sociale sulla credulità, sul mito dell’artista e sul valore dell’opera. Nello stesso anno realizza il video Peitho e Apate… della persuasione e dell’inganno, premiato al Torino Film Festival.

La sua produzione pittorica prosegue instancabile: dal 1985 in avanti Froglia lavora con ritmo febbrile, creando opere potenti, immediatamente riconoscibili, e animando mostre in Italia e all’estero. La sua salute, provata dalla dipendenza, non spegne però la sua lucidità artistica. Poco prima di morire confida all’amico Massimo Carboni una frase che riassume tutta la sua poetica:
“Il tempo non conta e fin dove posso arrivare lavoro, l’importante è la convinzione che ci metti dentro.”

Angelo Froglia muore nel 1997, lasciando un’eredità artistica intensa e sincera, fatta di gesti, ribellioni, immagini e verità personali. A Livorno rimane una figura simbolica: fragile, controversa, autentica, irripetibile.

Paolo Paolini

Paolo Paolini è un pittore dell’anima, profondamente radicato nella tradizione figurativa livornese, ma capace di rinnovarla con una voce propria, delicata e autentica. Le sue opere si iscrivono nella scia dei Macchiaioli, ma ne smorzano il vigore con una sensibilità più intima, pacata, quasi meditativa. Non c’è enfasi nei suoi paesaggi, né retorica nei suoi mari d’inverno: solo un’emozione trattenuta, sottile, che affiora tra le pennellate leggere come una brezza salmastra.

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La tavolozza di Paolini è tenue, personale, priva di forzature. I suoi colori non gridano: sussurrano. Il verde acquamarina, il grigio perlaceo, l’azzurro che si insinua tra le nubi cariche di pioggia… sono toni che parlano di mare, di moli deserti, di quartieri popolari osservati con amore. Ma anche del vento umido che sferza il viso, del freddo che punge, della malinconia leggera che accompagna certe giornate livornesi,  mai tragica, piuttosto poetica, capace di consolare.

È una pittura immediata, costruita con poche pennellate essenziali, che restituisce l’atmosfera più che il dettaglio, la sensazione più che la descrizione. C’è un rispetto profondo per il vero, ma anche una volontà di superarlo, per restituirci uno sguardo che riesce ancora a trovare la bellezza nel quotidiano. Ogni opera sembra volerci proteggere dal rumore del mondo, offrendo rifugi silenziosi in cui la realtà si trasfigura in memoria, o in sogno.

Nei quadri di Paolini si sente il respiro di Livorno: non quello celebrativo da cartolina, ma quello più intimo, vissuto, con le sue atmosfere incerte e struggenti. Il suo è un linguaggio pittorico sobrio e sincero, che non cerca l’effetto ma la verità delle piccole cose, la luce di un istante. Come se ogni dipinto fosse una poesia visiva, capace di farci dimenticare, per un attimo, la durezza del vivere.

Maria Teresa Majoli, luglio 2025

Gloria Geraci

Gloria Geraci vive e lavora a Livorno, città che pulsa di storia e tradizione artistica. La sua pittura figurativa nasce da una sensibilità profonda e da un raffinato equilibrio tra tecnica e poetica, capace di restituire la magia dei dettagli più minuti.

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Le sue opere spaziano dalle marine, evocative e tranquille, alle nature morte, dove ogni elemento racconta una storia di luce e armonia. I paesaggi toscani che rappresenta riflettono la dolcezza delle colline, i cieli mutevoli e la quiete della campagna, trasportando chi osserva in un mondo sospeso tra serenità e meraviglia.

Con Gloria Geraci, la tela diventa un dialogo intimo tra l’artista e lo spettatore: ogni pennellata rivela emozioni sincere e un amore profondo per la natura e per il colore, trasformando ogni quadro in un piccolo universo di poesia e bellezza.

Morgan Zangrossi

Nato a Rovigo il 7 gennaio 1974, vive e lavora a Gavello, in provincia di Rovigo.
Morgan Zangrossi è un artista materico che usa oggetti informatici e multimediali ormai in disuso per rappresentare la sua poetica.
Pezzi di computer rotti o obsoleti vengono nobilitati dall’artista che, inserendoli nelle sue composizioni e ricoprendoli di ruggine, li eleva e li permea della sacralità che solo l’invecchiamento dà.

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In galleria trovate opere che appartengono a tre cicli distinti, legati da un comune filo conduttore che è l’utilizzo di componenti hardware diversamente trattati con la ruggine, ossidi, metalli e resine.

La ruggine compare nei lavori di più antica data.

Negli assemblaggi che appartengono al ciclo “Archeologia Moderna” Morgan Zangrossi adopera ruggine vera, ottenuta facendo reagire il ferro liquido con agenti ossidanti. La ruggine è parte della memoria, è il primo impatto nel ritrovare un oggetto vissuto, nell’evocare il contatto con chi lo ha usato, toccato, gettato. Una alterazione che avvolge e ricompone il manufatto riportandolo ad una dimensione di naturale evoluzione.
Gli oggetti multimediali, i nostri componenti indistruttibili, plastici, inalterabili, come appariranno a chi dovesse ritrovarli in un tempo futuro?

Senza rughe, senza segni. Inalterati e anonimi non hanno memoria del passato, non evocano, non ci parlano di coloro che li hanno usati, delle vite che hanno condiviso e che sono state spese accanto e con loro, di quanto hanno visto. La ruggine li ricolloca nel tempo, dona loro i segni delle storie vissute e li ricopre di memoria.

“La ruggine è viva. La Natura crea le sfumature, io mi limito ad assecondarla ed essere testimone del suo divenire. Nelle mie opere è forte il contrasto tra inanimato e vivo, tra limpido e gretto, tra bello e brutto… eppure, paradossalmente, è proprio la parte “peggiore” ad essere interessante, attraente… proprio perchè unica cosa viva.

Viaggiare all’indietro nei secoli!

Ecco la sensazione che avvertiamo visitando un museo archeologico, dove in mostra ci sono gli oggetti di uso quotidiano che usavano gli uomini vissuti secoli prima di noi… un vero e proprio salto all’indietro…
Ci aggiriamo per le sale immaginando i nostri progenitori alle prese con quegli arnesi e siamo capaci di indovinarne l’uso perché tanto familiari anche a noi, ciotole, armi, utensili, arredi e giochi perfino.

E noi? Cosa ricorderanno di noi quelli che verranno dopo? Cosa rappresenta davvero il tempo che stiamo vivendo?
La nostra è la civiltà delle immagini ma soprattutto delle informazioni, che grazie agli strumenti detti “multimediali”, sono alla portata di tutti, si trovano ovunque anche se forse in eccesso rispetto a quelle che ci servono realmente.
Ho voluto però celebrare questi oggetti, che per molti di noi sono come delle ali, che ci portano verso mondi, fino a poco tempo fa inaccessibili, presentandoli come reperti di un mondo passato, proiettando la mia visione avanti nei secoli, con la fantastica macchina del tempo che è l’immaginazione. Rimane anche la sottile ironia dell’immedesimarsi nell’uomo del futuro che conserva le vestigia del suo passato, che è il nostro presente.
Rimane forte la contrapposizione tra bello e brutto, nuovo e vecchio, lucido e ruvido quindi tra virtuoso e immorale, difatti credo di aver bene rappresentato con queste opere il dualismo che c’è in internet e nei suoi media.
Se da un lato danno la possibilità di migliorare la qualità della vita, del lavoro e del divertimento, data l’estrema facilità di accedere a risorse illimitate, dall’altro espongono a ogni tipo di pericolo.
Nascosto dietro uno schermo infatti l’homo digitalis mostra la sua faccia peggiore, del tutto privo di moralità.
Dall’apparenza ruvida e sgradevole, la ruggine ha in realtà un’essenza timida, in pochi infatti colgono la sua calda bellezza e le sue sfumature infuocate; stesa dalla mano della Natura, la ruggine fiorisce, cambia, e in contrasto con gli oggetti sulle quali si posa, vive.
Proprio questa inconciliabilità l’ha fatta diventare la protagonista della mia arte: cercando qualcosa che potesse rappresentare la superficialità dei giudizi, quando si fermano all’apparenza o si fidano dei luoghi comuni, sono rimasto folgorato dalla ruggine.
Cosa meglio di questo particolare processo chimico avrebbe mostrato agli altri ciò che avevo da dire, che la vita e la bellezza possono trovarsi ancora in ciò che è definito ormai cadente.
E su cosa stenderla?
Quali oggetti avrebbero subito la trasformazione grazie a speciali vernici e potenti acidi?
Ovviamente sopra gli attrezzi da lavoro del nostro tempo, oggetti multimediali che dopo appena una ventina d’anni sono obsoleti, vecchi, superati.
Ricoprendoli di materia viva, li ho fatti rinascere sotto forma di humus, sopra cui la ruggine mette radici.”

Segue nel tempo il ciclo “In-prospettive” che segna il passaggio ad una graduale scomparsa dell’elemento hardware chiaramente riconoscibile. Un involucro irregolare ricopre parzialmente le superfici che ospitano componenti rivestiti di ruggine, o via via di ossidi e resine.

“Solo pochi occhi possono vedere al di là delle superfici, solo poche anime riescono a captare la vera essenza delle cose, delle persone, degli avvenimenti; il mio lavoro in questa fase vuole rappresentare proprio la difficoltà che ha la maggior parte della gente a percepire oltre. Mostrando quello che si cela sotto una superficie spesso anonima, piatta o ordinaria, spingo a considerare quanto possa essere sbagliato un giudizio dato in maniera affrettata. La regolarità degli involucri è squarciata per rivelare un’interiorità complessissima, fatta di percorsi tormentati, di ripensamenti: saldature come cicatrici, circuiti come sogni infranti, assemblaggi come esperienze di vita che ci permettono di essere quello che siamo. Gli spazialismi di Fontana e i meccanismi di Pomodoro hanno ispirato la mia mente e guidato la mia mano, portandomi a questi risultati.”

Il ciclo più recente è “Codicibus Ignotum“. In questa serie di opere gli oggetti tridimensionali non sono più riconoscibili, ma diventano oscuri codici, lontani alfabeti, indecifrabili scritture giunte a noi chissà da quale tempo, da quale luogo, da quale dimensione.

 

Il codice è ignoto, non c’è una chiave per decifrarlo. E’ un dono che ci viene offerto e che ci permette di metterci in particolare connessione con chi lo porge. Il pensiero va ai codici aztechi, ai simboli paleocristiani, a tavole da gioco medievali… Il ciclo è il proseguimento naturale del percorso di Morgan Zangrossi. Una ricerca che ha portato l’artista ad esplorare i meandri di un’archeologia fantastica, oscura e futuristica. Seppur ancora fortemente agganciate al filo conduttore delle precedenti, in questa serie di opere gli oggetti tridimensionali non sono più riconoscibili ma oscuri codici, lontani alfabeti, indecifrabili scritture giunte a noi da chissà quale tempo, da quale luogo, da quale dimensione. L’artista, come un viaggiatore interplanetario, ci consegna questi codici ignoti, in cui ognuno può scoprire e decifrare il proprio linguaggio personale.

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