Rosy Mantovani

Rosy Mantovani: tra solitudine e resilienza

Le opere di Rosy Mantovani raccontano un’umanità sospesa, fragile ma capace di resistere. Giovani donne e adolescenti emergono dai paesaggi urbani delle periferie, luoghi crudi e distopici che diventano metafora di una società impoverita nei valori e incapace di guardare al futuro con fiducia. Queste figure sono presenze-assenze: icone silenziose di un tempo in cui la comunicazione è globale ma l’umanità sembra smarrita, rinchiusa nel proprio “io” e incapace di trasformarsi in un “noi”.

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L’infanzia perde l’aura simbolica tradizionale e diventa specchio di una società anestetizzata, ma proprio attraverso la candida presenza dei giovani protagonisti, Mantovani suggerisce possibilità di rinascita. Come fiori cresciuti tra le crepe dell’asfalto, queste figure incarnano la forza della resilienza: occhi assorti nei pensieri ma pronti a non arrendersi, sguardi rivolti al domani nonostante la desolazione circostante.

Nata a Vigevano nel 1968, Mantovani ha iniziato come grafica pubblicitaria diplomata all’Accademia d’Arti Applicate di Milano, perfezionandosi in una prestigiosa agenzia milanese. La sua formazione artistica prosegue con la Fondazione Roncalli di Vigevano sotto la guida dei pittori Oronzo Mastro e Davide Avogadro, esperienze che le hanno permesso di sviluppare una cifra stilistica personale, capace di coniugare precisione tecnica e profondità emotiva.

La pittura di Mantovani si muove tra malinconia e speranza, narrando il paradosso della globalizzazione: un mondo unito nelle distanze fisiche ma frammentato nei legami umani. Le periferie diventano scenari di contrasto, dove il caos del mondo esterno e il silenzio interiore dei soggetti coesistono. Il mito del progresso e la religione del lusso e del divertimento lasciano spazio a una solitudine malinconica, eppure la forza interiore dei protagonisti emerge come luce che attraversa le ombre urbane.

Ogni opera è un invito a osservare la vita con occhi attenti, a riconoscere le crepe ma anche i germogli di speranza. Nei dipinti di Mantovani, vulnerabilità e resistenza convivono: la solitudine diventa occasione di riflessione, la quiete interiore si fa gesto di resistenza, la fragilità diventa poesia visiva. La sua arte ci ricorda che, nonostante il mal di vivere, la bellezza dei piccoli gesti e degli sguardi consapevoli può dare senso al nostro tempo.

Maria Teresa Majoli, settembre 2025

Stefania Hepeisen

Stefania Hepeisen, nata a Milano, laureata in Medicina e Chirurgia, ha esercitato la professione medica per molti anni. Dal 1990 si dedica alla pittura, iniziando con l’acquarello, poi passando all’acrilico e appassionandosi anche al trompe l’oeil. Successivamente, si perfezione nella pittura ad olio, che diventa la sua tecnica preferita, e specializzandosi nello stile iperrealistico. Oggi lavora tra Milano e Forte dei Marmi.

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La pittura di Stefania Hepeisen è un vero e proprio tributo alla bellezza delicata e alla preziosità dei fiori. I suoi quadri, pur rientrando nella tradizione della natura morta, vanno ben oltre il concetto di una composizione statica: ogni fiore dipinto sembra avere una storia, una sua vita interiore che si svela attraverso le morbide pieghe dei petali, catturate con una sensibilità straordinaria.

La tecnica iperrealista di questa pittrice riesce a esaltare la luce che danza delicatamente tra i fiori, sottolineando la consistenza setosa dei petali, che sembrano quasi sfiorare lo spettatore con la loro grazia. C’è un’attenzione particolare per i dettagli: la trasparenza dell’acqua nel vaso, la sottile ombra che si proietta sui petali, ogni elemento viene reso con un’eleganza impeccabile. Tuttavia, ciò che rende questa pittura davvero speciale è il calore che emana, una qualità che va oltre la precisione tecnica.

Ogni fiore che l’artista dipinge sembra emanare una poesia silenziosa e intima, che invita l’osservatore a soffermarsi e riflettere sulla fragilità della bellezza naturale, e su quel momento di perfezione che portiamo nelle nostre case quando scegliamo un fiore. È come se la pittura stessa volesse dirci che quel piccolo dono della natura merita di essere celebrato, ammirato e custodito con cura, un pezzo di mondo naturale che riceve il posto d’onore nei nostri spazi.

Le sue opere si distinguono per una dolcezza innata, che accarezza lo sguardo e riscalda l’anima. Le composizioni sono eleganti e raffinate, ogni fiore sembra posato con intenzione e affetto. È una pittura che non solo riproduce la realtà, ma le dona una nuova vita, una dimensione poetica dove la morbidezza e il calore prevalgono. In ogni fiore, possiamo leggere un omaggio alla natura stessa, una riflessione sull’importanza di preservare e onorare quella bellezza che spesso diamo per scontata.

In queste tele, si avverte una malinconia sottile, ma non cupa: piuttosto, una consapevolezza della fugacità della vita, e del valore di quegli istanti in cui la natura si manifesta in tutta la sua grazia effimera. Da ogni fiore, nasce una poesia calda, una storia raccontata con pennellate dolci e riflessive, che parla all’animo con un linguaggio universale di bellezza e armonia.

Maria Teresa Majoli

Raimondo Colantonio

Raimondo Colantonio

Il lungo cammino bianco – Il mare dentro

La pittura di Raimondo Colantonio unisce memoria, esperienza personale e profondità poetica. Nel ciclo Il lungo cammino bianco, l’artista rende omaggio agli uomini che affrontarono l’inverno russo del 1943. Figure evanescenti si sostengono a vicenda nella desolata distesa ghiacciata: ombre che si confondono tra cielo e terra, perdute nel bagliore della foschia. Con una pittura scarna e sintetica, ma dai magistrali toni, Colantonio restituisce la forza silenziosa della speranza e del coraggio umano.

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Accanto a questo nucleo, il progetto Il mare dentro raccoglie decenni di lavoro dedicati al mare, tema che accompagna l’artista fin dall’infanzia. Nato a Torre del Greco, Colantonio ha conosciuto il mare da bambino, seguendo il padre a bordo delle navi e imparando a leggere le correnti e i venti. L’esperienza si è approfondita durante il servizio militare in Marina, che lo ha portato a vivere il Mediterraneo nei suoi aspetti più drammatici e intensi. Da questa relazione profonda nasce un corpus di opere in cui il mare è insieme ricordo, passione e destino.

Nei dipinti “da riva” l’artista racconta i colori e le variazioni della luce: l’alba che rischiara la superficie calma, il temporale che incombe e increspa le onde, il tramonto che avvolge tutto in toni caldi e rassicuranti. Nei dipinti “da dentro”, invece, Colantonio ci conduce tra spruzzi e foschie, nel cuore vivo dell’acqua. Qui la pittura diventa esperienza fisica, immersione totale: si percepisce il respiro delle onde, la potenza dell’abbraccio marino, il mistero che affiora da un orizzonte in continuo movimento.

Ogni tela diventa così una finestra aperta sul legame indissolubile tra uomo e mare, tra memoria e visione. Con passione e rigore, Colantonio ci invita a guardare oltre la superficie, a riconoscere nella natura un riflesso profondo delle nostre emozioni e del nostro destino.

Maria Teresa Majoli, agosto 2023

Gianni Baccàro

GIANNI BACCÀRO. Icone nel tempo, segni nella terra

“Punto improprio”, un luogo simbolico dove si incontrano dimensioni diverse e si crea una nuova lettura della realtà, un punto di tensione e di incertezza, che apre a molteplici interpretazioni.

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È la pittura di Gianni Baccàro, artista napoletano per nascita, ma cosmopolita nella visione. Un lavoro che oscilla tra l’ironico e il drammatico, tra lampi di colore acceso e terre brune, verdi cupi, ocra stratificati, come su muri scavati dalla vita, incisi dal tempo. Una pittura che non rincorre la seduzione dell’attimo, ma si pianta nel terreno della memoria, tra radici profonde, fratture della storia e frammenti di futuro.

Baccàro non dipinge immagini, ma racconti sospesi, popolati da icone e simboli che attingono alla tradizione — mitica, religiosa, culturale — per riscriverla in chiave contemporanea. Le sue figure, spesso centrali, imponenti, sembrano maschere atemporali, immobili nella posa ma immerse in una narrazione fluida, quasi liturgica. Non sono mai sole: intorno a loro si muove una costellazione di segni, allegorie, simboli, riferimenti che scavano nella memoria collettiva, rievocando una storia dell’uomo che è passata, presente e immanente, inscritta in ogni gesto, in ogni simbolo, in ogni frammento di realtà.

Ogni quadro di Gianni Baccàro è come una pietra stratificata: su fondi bruni e densi — che possono ricordare una cripta medievale, una piazza d’armi, un fondale scenico che custodisce il silenzio prima dello spettacolo — si innestano tracce cromatiche e segni graffiati, simili a scritture antiche che affiorano dal fondo: tracce che ampliano e complicano il racconto, senza implodere mai nel caos. Al contrario, ogni gesto è calibrato, ogni tensione cromatica è trattenuta da una struttura invisibile, un’architettura mentale e simbolica che regge la composizione.

La sua è una pittura colta, consapevole, stratificata, ma mai retorica. È pittura che interroga, che forma concetti e ne dissolve i contorni. Che guarda al passato non per nostalgia, ma per raccoglierne la forza generativa, come farebbe un alchimista che fonde metallo antico per ottenere una lega nuova. Ci sono echi di classicità, rielaborati con uno spirito inquieto e contemporaneo. L’artista è, in questo senso, un cartografo dell’immaginario contemporaneo, e le sue opere sono mappe complesse in cui il sacro, il profano, l’ironico e il drammatico si intrecciano.

I titoli, spesso articolati e visionari, funzionano come legende di queste mappe simboliche: non spiegano, ma orientano. Aprono varchi interpretativi, suggeriscono direzioni possibili, senza mai chiudere il senso.

Il suo segno pittorico si muove tra figurazione e astrazione, tra geometrie latenti e gestualità fluide. Non c’è un’unica via stilistica, ma un’alternanza ragionata tra ordine e istinto, tra strutture mentali e slanci emozionali. Spesso, il colore appare come un’intuizione, un lampo che si apre nella materia, e poi si ritrae, lasciando spazio a un silenzio visivo che amplifica il mistero. Sono opere che sembrano affiorare dal fondo di un gorgo: visioni che respirano sott’acqua, dove il tempo è sospeso e ogni forma è insieme compiuta e in divenire.

Dipingere, per Baccàro, non è mai “affermare”, ma indicare una soglia, aprire un varco, proporre un dubbio. E infatti, in ogni suo quadro, c’è sempre una tensione filosofica, una riflessione sull’identità, sul ruolo dell’immagine, sul senso del tempo.

L’ironia che abita queste opere non è mai caricatura o sarcasmo, ma un sentimento profondo, antico, quasi teatrale. È la consapevolezza, tutta umana, che le grandi maschere della storia — quelle del potere, del desiderio, della fede — sono destinate a ripetersi, trasformarsi, ma mai a scomparire. Ed è con questa consapevolezza che Baccàro dipinge: critico ma fiero, amaro ma lucido, radicato nel presente ma con lo sguardo rivolto altrove.

Il risultato è una pittura viva, potente, esigente. Che non si accontenta dell’apparenza, ma pretende dal fruitore attenzione, dedizione, immersione. Che chiede di essere letta, ascoltata, meditata, come un testo sacro o un enigma visivo. Una pittura che sfida, sì, ma che in fondo accoglie: perché il racconto che scorre tra quelle figure e quei simboli è anche il nostro. E perché, alla fine, solo l’arte — come scrive l’artista con i suoi gesti — può ancora opporsi al silenzio delle cose.

Maria Teresa Majoli, luglio 2025

Giuseppe Pierozzi

La pittura figurativa di Giuseppe Pierozzi affonda le proprie radici nella tradizione artistica labronica, assorbendo l’eredità tecnica e poetica dei grandi maestri. La sua mano sicura, maturata in anni di ricerca, si unisce a una sensibilità naturale che trova piena espressione nel dipingere dal vero. Paesaggi marini, campagne dorate, scorci urbani e campi in fiore diventano così racconti visivi, nati da un contatto diretto con la natura.

Il suo gesto pittorico è spontaneo e istintivo, capace di fermare sulla tela la vibrazione di un momento: il bagliore caldo di un tramonto, il moto impetuoso delle onde, la placida calma di un pomeriggio estivo in campagna. Ogni quadro è un frammento di bellezza autentica, una finestra aperta verso un altrove sereno, lontano dalla frenesia del quotidiano.

La tavolozza di Pierozzi è ricca e luminosa, animata da contrasti vivi e armonie cromatiche. Nei gialli brillanti delle spighe mature si avverte energia e calore, mentre nei cieli tersi e trasparenti emerge una leggerezza ariosa. Le pennellate, talvolta vigorose e pastose, talvolta morbide e sfumate, modulano la luce fino a renderla protagonista della scena.

Pur muovendosi nel solco della tradizione, Pierozzi sviluppa un linguaggio attuale e vitale. Non c’è nostalgia nei suoi paesaggi, ma un dialogo aperto con il presente, in cui la pittura diventa quasi terapia del colore, capace di infondere positività e ristoro interiore.

In ogni sua opera si respira un senso di equilibrio e di pienezza, un invito a rallentare lo sguardo e a riscoprire la forza delle emozioni semplici. È una bellezza che non pretende di stupire con artifici, ma che conquista con la genuinità e la gioia di uno sguardo sincero sul mondo.

Maria Teresa Majoli, agosto 2025

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