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Fiorenzo Isaia

Fiorenzo Isaia è un artista di straordinaria sensibilità, capace di trasformare una tecnica impeccabile in una narrazione intensa e poetica. La sua pittura, raffinata e armoniosa, si distingue per la morbidezza dei colori, la fluidità delle forme e l’atmosfera sospesa che avvolge ogni composizione.

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Lontano dalle mode e dalle urgenze del tempo, Isaia lavora con pazienza e dedizione, creando acquerelli in cui realtà e sogno si fondono con naturalezza. Nei suoi paesaggi, come nelle figure, l’ispirazione dal vero si intreccia a una dimensione interiore e immaginaria, dando vita a piccoli mondi silenziosi in cui convivono poesia, ironia e nostalgia.

Le sue opere hanno il dono raro di evocare ricordi e suggestioni personali in chi guarda: una luce particolare, un angolo di natura, un volto assorto sembrano diventare parte della memoria collettiva. È un’arte che non grida, ma sussurra, e proprio per questo rimane impressa a lungo.

Il suo stile, al tempo stesso classico e moderno, può essere definito una sorta di realismo magico: ogni acquerello è una soglia da attraversare, un invito a guardare oltre l’apparenza per cogliere il senso profondo delle cose. Con eleganza e profondità, Fiorenzo Isaia ci offre una pittura che incanta lo sguardo e tocca l’anima, regalando momenti di autentica contemplazione.

La mostra, organizzata da Melograno Art Gallery, è un’occasione preziosa per immergersi nel suo mondo e per scoprire dal vivo l’intensità e la leggerezza della sua ricerca artistica.

Gianni Baccàro

GIANNI BACCÀRO. Icone nel tempo, segni nella terra

“Punto improprio”, un luogo simbolico dove si incontrano dimensioni diverse e si crea una nuova lettura della realtà, un punto di tensione e di incertezza, che apre a molteplici interpretazioni.

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È la pittura di Gianni Baccàro, artista napoletano per nascita, ma cosmopolita nella visione. Un lavoro che oscilla tra l’ironico e il drammatico, tra lampi di colore acceso e terre brune, verdi cupi, ocra stratificati, come su muri scavati dalla vita, incisi dal tempo. Una pittura che non rincorre la seduzione dell’attimo, ma si pianta nel terreno della memoria, tra radici profonde, fratture della storia e frammenti di futuro.

Baccàro non dipinge immagini, ma racconti sospesi, popolati da icone e simboli che attingono alla tradizione — mitica, religiosa, culturale — per riscriverla in chiave contemporanea. Le sue figure, spesso centrali, imponenti, sembrano maschere atemporali, immobili nella posa ma immerse in una narrazione fluida, quasi liturgica. Non sono mai sole: intorno a loro si muove una costellazione di segni, allegorie, simboli, riferimenti che scavano nella memoria collettiva, rievocando una storia dell’uomo che è passata, presente e immanente, inscritta in ogni gesto, in ogni simbolo, in ogni frammento di realtà.

Ogni quadro di Gianni Baccàro è come una pietra stratificata: su fondi bruni e densi — che possono ricordare una cripta medievale, una piazza d’armi, un fondale scenico che custodisce il silenzio prima dello spettacolo — si innestano tracce cromatiche e segni graffiati, simili a scritture antiche che affiorano dal fondo: tracce che ampliano e complicano il racconto, senza implodere mai nel caos. Al contrario, ogni gesto è calibrato, ogni tensione cromatica è trattenuta da una struttura invisibile, un’architettura mentale e simbolica che regge la composizione.

La sua è una pittura colta, consapevole, stratificata, ma mai retorica. È pittura che interroga, che forma concetti e ne dissolve i contorni. Che guarda al passato non per nostalgia, ma per raccoglierne la forza generativa, come farebbe un alchimista che fonde metallo antico per ottenere una lega nuova. Ci sono echi di classicità, rielaborati con uno spirito inquieto e contemporaneo. L’artista è, in questo senso, un cartografo dell’immaginario contemporaneo, e le sue opere sono mappe complesse in cui il sacro, il profano, l’ironico e il drammatico si intrecciano.

I titoli, spesso articolati e visionari, funzionano come legende di queste mappe simboliche: non spiegano, ma orientano. Aprono varchi interpretativi, suggeriscono direzioni possibili, senza mai chiudere il senso.

Il suo segno pittorico si muove tra figurazione e astrazione, tra geometrie latenti e gestualità fluide. Non c’è un’unica via stilistica, ma un’alternanza ragionata tra ordine e istinto, tra strutture mentali e slanci emozionali. Spesso, il colore appare come un’intuizione, un lampo che si apre nella materia, e poi si ritrae, lasciando spazio a un silenzio visivo che amplifica il mistero. Sono opere che sembrano affiorare dal fondo di un gorgo: visioni che respirano sott’acqua, dove il tempo è sospeso e ogni forma è insieme compiuta e in divenire.

Dipingere, per Baccàro, non è mai “affermare”, ma indicare una soglia, aprire un varco, proporre un dubbio. E infatti, in ogni suo quadro, c’è sempre una tensione filosofica, una riflessione sull’identità, sul ruolo dell’immagine, sul senso del tempo.

L’ironia che abita queste opere non è mai caricatura o sarcasmo, ma un sentimento profondo, antico, quasi teatrale. È la consapevolezza, tutta umana, che le grandi maschere della storia — quelle del potere, del desiderio, della fede — sono destinate a ripetersi, trasformarsi, ma mai a scomparire. Ed è con questa consapevolezza che Baccàro dipinge: critico ma fiero, amaro ma lucido, radicato nel presente ma con lo sguardo rivolto altrove.

Il risultato è una pittura viva, potente, esigente. Che non si accontenta dell’apparenza, ma pretende dal fruitore attenzione, dedizione, immersione. Che chiede di essere letta, ascoltata, meditata, come un testo sacro o un enigma visivo. Una pittura che sfida, sì, ma che in fondo accoglie: perché il racconto che scorre tra quelle figure e quei simboli è anche il nostro. E perché, alla fine, solo l’arte — come scrive l’artista con i suoi gesti — può ancora opporsi al silenzio delle cose.

Maria Teresa Majoli, luglio 2025

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