Matteo Torri

Matteo Torri è un giovane artista livornese, nato nel 2001.

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Autodidatta, ha una pittura fresca che, nata in maniera spontanea e senza alcuna formazione, si distacca da qualsiasi corrente artistica e si sviluppa in modo del tutto autonomo, raccogliendo le istanze e le pulsioni che animano la gioventù contemporanea. La sua produzione artistica abbraccia una vasta gamma di espressioni.

Accanto a caratteri che attingono e ammiccano alla street art troviamo opere più classicamente pittoriche. In queste, si rivela una sensibilità già matura, evidenziata anche dalla scelta insolita e accattivante dei colori.

Alessandro Danzini

Il vento plasma la roccia, danza con le nuvole, inquieta il mare e dipinge nuovi orizzonti.

Alessandro Danzini, nato a Pisa nel 1974 e cresciuto a Livorno, è un artista che da sempre osserva con intensità il paesaggio toscano, rendendolo il protagonista assoluto delle sue opere. Da un’analisi accurata della tradizione pittorica della scuola toscana, Danzini è approdato a un linguaggio personale, in cui l’arte non si limita a rappresentare, ma esplora le forze che plasmano la natura. Il titolo della sua nuova mostra, Dove soffia il vento, richiama il dinamismo della natura, dove ogni elemento – dal cielo alle rocce, dal mare alla vegetazione – è modellato incessantemente dalla forza del vento.

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In questa serie di dipinti, Danzini non si limita a ricreare il paesaggio toscano con un realismo dettagliato. La sua arte va oltre, proponendo visioni intime e drammatiche, in cui l’accettazione della precarietà della vita si fonde con la potenza della natura. La roccia, in particolare, diventa il soggetto centrale: aspra e tormentata, appare lacerata dal continuo confronto con gli agenti atmosferici. Le sue superfici raccontano storie di erosione, di forze che agiscono senza sosta, senza pietà, ma anche di una bellezza che nasce dalla distruzione. La luce gioca sulle ferite delle rocce, facendo emergere spettacolari variazioni cromatiche, che rivelano la magnificenza di ciò che il vento e il mare hanno creato.

Il cielo, carico di nuvole che sembrano in costante movimento, è un altro protagonista fondamentale di questa narrazione. L’aria, che trasporta la bellezza del paesaggio, è anche il mezzo attraverso cui ogni elemento viene trasformato, e l’artista cattura la dinamica di questo processo. In Danzini, il vento non è solo una presenza fisica, ma un agente che dona vita a un continuo mutamento, conferendo ai paesaggi una qualità quasi surreale, sospesa tra il reale e l’irreale.

Questa nuova visione della natura, esasperata e al contempo sublime, invita lo spettatore a riflettere sulla transitorietà della vita. La roccia che si sgretola, il mare che erode le sue sponde, e il cielo che si trasforma incessantemente sono immagini potenti che ricordano quanto la bellezza e la fragilità siano intimamente legate. Dove soffia il vento diventa così un inno alla forza trasformativa della natura e alla consapevolezza che, in questo processo perpetuo di cambiamento, anche noi siamo solo piccole parti di un disegno universale in continua evoluzione.

Abbandonandosi alla contemplazione di queste opere, lo spettatore è invitato a riconoscere l’incredibile bellezza di un mondo che si costruisce e si distrugge, senza mai fermarsi. Un mondo che continua a cambiare, a plasmarsi, a resistere – un mondo che, come la roccia sotto la spinta del vento, ci racconta la storia eterna della natura e della vita stessa.

Maria Teresa Majoli, marzo 2025

Claudio Citi

Claudio Citi

Tra ironia, natura e inquietudine: metamorfosi contemporanee

Claudio Citi, artista livornese, lavora con una pittura figurativa vivace e accattivante, che riesce a fondere sapientemente amore per la natura e critica sociale. Le sue opere, anche di grande formato, affascinano per l’uso esperto del colore e per la leggerezza apparente delle forme, ma nascondono spesso significati profondi, talvolta scomodi, che emergono con sottile ironia.

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Animali, piante ed elementi naturali popolano le sue tele, ma raramente sono rappresentati nella loro forma originaria. Citi gioca con la trasformazione, dando vita a creature ibridate, mutate, sospese tra realtà e immaginazione. Queste metamorfosi, trattate con un tocco insieme amorevole e inquietante, sembrano suggerire una riflessione sul nostro rapporto con il mondo naturale. C’è, nelle sue figure – come certi polli geneticamente modificati che ci osservano con sguardo intelligente e beffardo – una vena ironica e quasi macabra, che diventa commento tagliente sull’evoluzione forzata, sulla manipolazione biotecnologica, sulla perdita di autenticità.

Ogni opera è un invito a guardare oltre, a cogliere l’ambiguità tra gioco e minaccia, tra bellezza e dissonanza. Citi ci spinge a riflettere sulle conseguenze delle nostre scelte, ma senza mai rinunciare a un linguaggio visivo accessibile, che accoglie lo spettatore con grazia e lo accompagna, quasi con un sorriso, verso la consapevolezza.

La leggerezza del gioco non sminuisce, ma amplifica il potere del messaggio: il suo è un mondo in cui la meraviglia si mescola al dubbio, e la natura diventa specchio delle nostre paure, delle nostre aspirazioni, dei nostri limiti.

Scultore oltre che pittore, realizza anche originali gioielli d’arte. Nel 2019 ha vinto il Premio della Giuria  a La Quadrata con l’opera Naturalmentetossico, esposta in seguito ad Arte Padova 2019.

Maria Teresa Majoli, aprile 2025

Valeria Luschi

La pittura di Valeria Luschi si distingue per la sua calda luminosità e per la limpidezza dello sguardo con cui interpreta la realtà. Nei suoi dipinti, figurativi e immediatamente accoglienti, l’artista racconta paesaggi, scorci urbani, momenti familiari e scene di vita quotidiana con una sensibilità che unisce tradizione e contemporaneità. La sua è una visione serena e partecipe, capace di restituire emozioni semplici e profonde, legate al ritmo naturale delle cose e alla luce che le attraversa.

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Ogni opera nasce da un’osservazione attenta e affettuosa del mondo circostante: un angolo della città, un giardino, una stanza domestica diventano pretesti per esplorare il rapporto tra colore, spazio e tempo. Luschi costruisce le sue composizioni con equilibrio e misura, affidandosi a una tavolozza chiara e armoniosa che trasmette leggerezza e quiete.

Nelle sue tele, il quotidiano si trasforma in una pausa poetica, in un invito a riscoprire la bellezza delle piccole cose. L’artista riesce a dare voce alla semplicità, mostrando come anche i gesti più ordinari possano contenere un senso di pace e di gratitudine. Il risultato è una pittura che parla di vita vissuta con autenticità, capace di riconciliare chi guarda con il proprio presente.

Con il suo linguaggio figurativo, caldo e luminoso, Valeria Luschi ci conduce in uno spazio di armonia e contemplazione, dove la pittura diventa esperienza interiore e dialogo silenzioso con la realtà.

Donatella Lami

Donatella Lami si distingue come acquarellista di grande talento, con una mano classica e un disegno impeccabile che riflette precisione, sensibilità e profondità emotiva. La sua pittura, talvolta estesa anche alla tecnica acrilica, dà vita a paesaggi dai toni sognanti e irreali, capaci di trasportare chi li osserva in atmosfere leggere e sospese, dove la realtà si mescola al mistero.

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Amante dei cavalli, Lami li ritrae con naturalezza e dinamismo, catturandone la grazia nei movimenti e trasformando ogni scena in un momento di poesia. La sua capacità di fondere il mondo terraneo con elementi di incanto conferisce alle opere una dimensione unica: ogni animale, ogni paesaggio, diventa simbolo di libertà e leggerezza.

I colori, luminosi e sorprendenti, dialogano con la forma e il movimento, creando composizioni in cui il sogno incontra la tecnica e la sensibilità classica si sposa con l’inventiva contemporanea. Lami invita lo spettatore a soffermarsi, a percepire il respiro della natura e a lasciarsi trasportare dall’armonia dei dettagli e dalla magia dei toni.

In sintesi, Donatella Lami offre un universo pittorico dove movimento, luce e sogno si incontrano, rendendo ogni opera non solo una raffigurazione, ma una vera esperienza emotiva. La sua arte riesce a coniugare tecnica impeccabile, eleganza narrativa e una visione poetica che rimane impressa nella memoria di chi osserva.

Stefano Urzi

Al centro dell’arte di Stefano Urzi è il mare.

Sulla riva, con la brezza salina che gli accarezza il viso, guarda il suo amato mare, la sua natura mutevole e imprevedibile, immenso spettacolo che si estende all’infinito e che non pone limiti ai sogni e alla libertà. C’è qualcosa di costante ed eterno nel mare: la sua capacità di incantare la vista e di ammaliare i sensi.

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E sulle tele è il mare stesso che ci parla, per mezzo del suo grande interprete. Come in un’istantanea, ecco lo sfavillio dei bagliori tra le onde, la morbida spuma bianca, la luce nitida sulle acque calme, il blu dei cieli, il rumore frusciante della risacca, o sordo e cupo del vento, le onde appena increspate, gli spruzzi, l’odore di salmastro, la brezza leggera che carezza la faccia, la raffica violenta che la sferza, lasciandola umida di sale, il riverbero che acceca di luce, gli scogli appuntiti sotto i nostri passi…

Le sue tele sembrano vivere, capaci di trasportare chi le osserva in un luogo lontano, in una storia senza tempo, in cui possiamo viaggiare per ore e perderci nelle sue profondità. È un viaggio fisico e spirituale che ci porta a ritrovare noi stessi e le nostre emozioni, in una meraviglia continua che rappresenta una fonte inesauribile di ispirazione e riflessione. Possiamo sentire la potenza della natura, la sua forza e la sua bellezza, e ascoltare la voce del vento, il silenzio.

Vera Lowen

Vera Lowen è un’artista con oltre quarant’anni di esperienza, il cui lavoro si muove tra pittura su tessuto e acquarello. Nata come acquarellista e architetto di formazione, ha sviluppato negli anni una cifra stilistica personale, in cui tecnica e sensibilità si intrecciano per dare vita a opere dal forte impatto emotivo.

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I suoi lavori esplorano la condizione umana, trasformando fragilità ed emozioni in immagini sospese tra memoria, speranza e rinascita. Negli ultimi anni la sua ricerca si è sempre più orientata verso tematiche sociali, dove la pittura diventa uno strumento per osservare la realtà e stimolare riflessioni profonde sulla vita e sulla società.

Le opere di Vera Lowen sono realizzate su tessuti pregiati, come sete leggere e delicate, su cui ogni tratto è il frutto di un lungo percorso di studio e sperimentazione. Il processo creativo parte dall’ideazione su carta, passa attraverso schizzi ad acquarello e infine si trasferisce sul tessuto, dando vita a composizioni leggiadre e preziose, dove colore, luce e materia dialogano con lo spettatore.

Fiori, elementi naturali e oggetti quotidiani diventano simboli di resilienza, bellezza e rinascita. In questa prospettiva, la pittura di Vera Lowen non è solo estetica, ma anche un veicolo di riflessione e partecipazione: ogni opera invita chi osserva a confrontarsi con sé stesso, a ritrovare armonia e speranza in un mondo sempre più complesso.

Giuseppe Trentacoste

Giuseppe Trentacoste

Giuseppe Trentacoste (Firenze, 1977) sviluppa una personale ricerca sulla materia e sulla memoria degli oggetti, concentrandosi da oltre vent’anni su una tecnica che definisce “tela piegata”. La sua opera nasce dal gesto semplice ma profondamente simbolico del piegare sacchi di juta, in precedenza utilizzati per contenere caffè, tabacco o cacao. Materiali di scarto, impregnati di storia e di viaggi, diventano così protagonisti di un linguaggio che unisce arte povera, rilievo scultoreo e pittura.

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«La mia tecnica – spiega l’artista – è basata sull’utilizzo di sacchi di juta che, in precedenza, contenevano caffè, tabacco o cacao. Piegando questi sacchi, che recupero presso torrefazioni locali o grazie ad amici che tornano da viaggi all’estero, creo bassorilievi. Attraverso la manualità e le diverse piegature, che non seguono una precisa logica, faccio in modo che i timbri di provenienza rimangano in vista, cosicché il fruitore della mia opera possa conoscere il vissuto e il percorso del sacco. Infatti, esso stesso è, per me, veicolo e opera d’arte, strumento e risultato: il sacco ha una sua memoria e una sua storia, così come tutti gli oggetti».

Il processo è complesso e in continua evoluzione dal 2005. I sacchi vengono piegati più volte, intelaiati, trattati con resine, colle e colori acrilici per raggiungere una compattezza e una rigidità pari a quella della plastica, pur restando internamente vuoti e leggeri. La juta, materiale povero e ruvido, rinasce in nuove forme: da semplice contenitore diventa superficie viva, trama pulsante di una narrazione visiva che conserva i segni del proprio passato.

L’uso del sacco di juta e dell’imbottitura conferisce all’opera una tridimensionalità grezza, fatta di materiali umili che contrastano con la forza visiva e concettuale del soggetto. In molti lavori di Trentacoste, la materia diventa teatro di un immaginario ironico e surreale: figure, simboli e personaggi del mondo pop e infantile emergono dal rilievo come apparizioni giocose, capaci di trasformare l’oggetto in un racconto corale.

Attraverso la “tela piegata”, Trentacoste trasforma la memoria del materiale in linguaggio poetico. Ogni piega è un respiro, ogni trama un percorso. Nella sua ricerca si intrecciano sostenibilità, recupero e libertà espressiva: il sacco conserva la sua voce originaria ma parla un linguaggio nuovo, quello dell’arte che sa vedere oltre la superficie delle cose.

Morgan Zangrossi

Nato a Rovigo il 7 gennaio 1974, vive e lavora a Gavello, in provincia di Rovigo.
Morgan Zangrossi è un artista materico che usa oggetti informatici e multimediali ormai in disuso per rappresentare la sua poetica.
Pezzi di computer rotti o obsoleti vengono nobilitati dall’artista che, inserendoli nelle sue composizioni e ricoprendoli di ruggine, li eleva e li permea della sacralità che solo l’invecchiamento dà.

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In galleria trovate opere che appartengono a tre cicli distinti, legati da un comune filo conduttore che è l’utilizzo di componenti hardware diversamente trattati con la ruggine, ossidi, metalli e resine.

La ruggine compare nei lavori di più antica data.

Negli assemblaggi che appartengono al ciclo “Archeologia Moderna” Morgan Zangrossi adopera ruggine vera, ottenuta facendo reagire il ferro liquido con agenti ossidanti. La ruggine è parte della memoria, è il primo impatto nel ritrovare un oggetto vissuto, nell’evocare il contatto con chi lo ha usato, toccato, gettato. Una alterazione che avvolge e ricompone il manufatto riportandolo ad una dimensione di naturale evoluzione.
Gli oggetti multimediali, i nostri componenti indistruttibili, plastici, inalterabili, come appariranno a chi dovesse ritrovarli in un tempo futuro?

Senza rughe, senza segni. Inalterati e anonimi non hanno memoria del passato, non evocano, non ci parlano di coloro che li hanno usati, delle vite che hanno condiviso e che sono state spese accanto e con loro, di quanto hanno visto. La ruggine li ricolloca nel tempo, dona loro i segni delle storie vissute e li ricopre di memoria.

“La ruggine è viva. La Natura crea le sfumature, io mi limito ad assecondarla ed essere testimone del suo divenire. Nelle mie opere è forte il contrasto tra inanimato e vivo, tra limpido e gretto, tra bello e brutto… eppure, paradossalmente, è proprio la parte “peggiore” ad essere interessante, attraente… proprio perchè unica cosa viva.

Viaggiare all’indietro nei secoli!

Ecco la sensazione che avvertiamo visitando un museo archeologico, dove in mostra ci sono gli oggetti di uso quotidiano che usavano gli uomini vissuti secoli prima di noi… un vero e proprio salto all’indietro…
Ci aggiriamo per le sale immaginando i nostri progenitori alle prese con quegli arnesi e siamo capaci di indovinarne l’uso perché tanto familiari anche a noi, ciotole, armi, utensili, arredi e giochi perfino.

E noi? Cosa ricorderanno di noi quelli che verranno dopo? Cosa rappresenta davvero il tempo che stiamo vivendo?
La nostra è la civiltà delle immagini ma soprattutto delle informazioni, che grazie agli strumenti detti “multimediali”, sono alla portata di tutti, si trovano ovunque anche se forse in eccesso rispetto a quelle che ci servono realmente.
Ho voluto però celebrare questi oggetti, che per molti di noi sono come delle ali, che ci portano verso mondi, fino a poco tempo fa inaccessibili, presentandoli come reperti di un mondo passato, proiettando la mia visione avanti nei secoli, con la fantastica macchina del tempo che è l’immaginazione. Rimane anche la sottile ironia dell’immedesimarsi nell’uomo del futuro che conserva le vestigia del suo passato, che è il nostro presente.
Rimane forte la contrapposizione tra bello e brutto, nuovo e vecchio, lucido e ruvido quindi tra virtuoso e immorale, difatti credo di aver bene rappresentato con queste opere il dualismo che c’è in internet e nei suoi media.
Se da un lato danno la possibilità di migliorare la qualità della vita, del lavoro e del divertimento, data l’estrema facilità di accedere a risorse illimitate, dall’altro espongono a ogni tipo di pericolo.
Nascosto dietro uno schermo infatti l’homo digitalis mostra la sua faccia peggiore, del tutto privo di moralità.
Dall’apparenza ruvida e sgradevole, la ruggine ha in realtà un’essenza timida, in pochi infatti colgono la sua calda bellezza e le sue sfumature infuocate; stesa dalla mano della Natura, la ruggine fiorisce, cambia, e in contrasto con gli oggetti sulle quali si posa, vive.
Proprio questa inconciliabilità l’ha fatta diventare la protagonista della mia arte: cercando qualcosa che potesse rappresentare la superficialità dei giudizi, quando si fermano all’apparenza o si fidano dei luoghi comuni, sono rimasto folgorato dalla ruggine.
Cosa meglio di questo particolare processo chimico avrebbe mostrato agli altri ciò che avevo da dire, che la vita e la bellezza possono trovarsi ancora in ciò che è definito ormai cadente.
E su cosa stenderla?
Quali oggetti avrebbero subito la trasformazione grazie a speciali vernici e potenti acidi?
Ovviamente sopra gli attrezzi da lavoro del nostro tempo, oggetti multimediali che dopo appena una ventina d’anni sono obsoleti, vecchi, superati.
Ricoprendoli di materia viva, li ho fatti rinascere sotto forma di humus, sopra cui la ruggine mette radici.”

Segue nel tempo il ciclo “In-prospettive” che segna il passaggio ad una graduale scomparsa dell’elemento hardware chiaramente riconoscibile. Un involucro irregolare ricopre parzialmente le superfici che ospitano componenti rivestiti di ruggine, o via via di ossidi e resine.

“Solo pochi occhi possono vedere al di là delle superfici, solo poche anime riescono a captare la vera essenza delle cose, delle persone, degli avvenimenti; il mio lavoro in questa fase vuole rappresentare proprio la difficoltà che ha la maggior parte della gente a percepire oltre. Mostrando quello che si cela sotto una superficie spesso anonima, piatta o ordinaria, spingo a considerare quanto possa essere sbagliato un giudizio dato in maniera affrettata. La regolarità degli involucri è squarciata per rivelare un’interiorità complessissima, fatta di percorsi tormentati, di ripensamenti: saldature come cicatrici, circuiti come sogni infranti, assemblaggi come esperienze di vita che ci permettono di essere quello che siamo. Gli spazialismi di Fontana e i meccanismi di Pomodoro hanno ispirato la mia mente e guidato la mia mano, portandomi a questi risultati.”

Il ciclo più recente è “Codicibus Ignotum“. In questa serie di opere gli oggetti tridimensionali non sono più riconoscibili, ma diventano oscuri codici, lontani alfabeti, indecifrabili scritture giunte a noi chissà da quale tempo, da quale luogo, da quale dimensione.

 

Il codice è ignoto, non c’è una chiave per decifrarlo. E’ un dono che ci viene offerto e che ci permette di metterci in particolare connessione con chi lo porge. Il pensiero va ai codici aztechi, ai simboli paleocristiani, a tavole da gioco medievali… Il ciclo è il proseguimento naturale del percorso di Morgan Zangrossi. Una ricerca che ha portato l’artista ad esplorare i meandri di un’archeologia fantastica, oscura e futuristica. Seppur ancora fortemente agganciate al filo conduttore delle precedenti, in questa serie di opere gli oggetti tridimensionali non sono più riconoscibili ma oscuri codici, lontani alfabeti, indecifrabili scritture giunte a noi da chissà quale tempo, da quale luogo, da quale dimensione. L’artista, come un viaggiatore interplanetario, ci consegna questi codici ignoti, in cui ognuno può scoprire e decifrare il proprio linguaggio personale.

Mario Bencini

Nato a Livorno, Mario Bencini ha intrapreso il suo percorso artistico nel 1979, collocandosi nella tradizione pittorica livornese con una tavolozza inconfondibile. I suoi colori, brillanti e solari, danno vita a opere luminose che trasmettono emozioni profonde. Attraverso ogni pennellata, Bencini non dipinge solo paesaggi e fiori, ma lascia impresso anche un frammento della sua anima. Le sue campagne, marine e distese di fiori sono un inno alla bellezza della natura, tradotta in una gioia di colori che avvolge lo spettatore

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